Alfabetizzare i bambini già alla scuola materna non fa bene. Meglio lasciarli giocare finché possibile, perché i benefici registrati nei piccoli allievi “prescolarizzati” sono momentanei e nel tempo possono trasformarsi in svantaggi. O addirittura in danni, disagi in ambito sociale ed emotivo.
La prescolarizzazione, ovvero l’anticipo nell’acquisizione di competenze scolastiche, può avere effetti negativi sui bambini. La conferma arriva ormai da numerose ricerche. È tendenza comune pensare che “preparare” i piccoli alla scuola elementare già con esercizi durante l’ultimo anno di materna, anticipare la data di inizio della scuola obbligatoria, scolarizzarli prima insomma, costituisca un vantaggio perché li prepara ad affrontare “il passo successivo”, e che faciliti il loro percorso accademico. Ma non è così. Anzi.
Alcuni studi statunitensi hanno messo a confronto le scuole materne orientate alla preparazione accademica con quelle basate su gioco, esplorazione e socializzazione, scoprendo che i benefici registrati nei piccoli allievi “prescolarizzati” sono momentanei, e nel tempo possono trasformarsi in svantaggi. Esperienze educative non adeguate al livello di sviluppo o in sintonia con i bisogni e le possibilità dei bambini possono causare gravi danni, tra cui sentimenti di inadeguatezza, ansia e confusione.
Nessun dato dimostra i vantaggi protratti di un’alfabetizzazione anticipata, mentre ne esistono a favore del gioco libero. Come prevedibile, la formazione anticipata migliora i punteggi ai test specifici in linea con la formazione ricevuta (ad esempio lettura o scrittura), però i guadagni iniziali si perdono entro i tre-quattro anni e, almeno secondo alcune indagini, con il tempo si invertono. Il dato più significativo è che a lungo termine si riscontrano disagi in ambito sociale ed emotivo.
I bambini iper-scolarizzati in anticipo risultano tendenzialmente giovani adulti più aggressivi, portati alla lite e al contrasto, poco empatici rispetto a coloro che da piccoli hanno avuto la possibilità di giocare. Gli esperti ipotizzano che il gioco libero permette di imparare a rapportarsi agli altri, di sviluppare modelli di responsabilità personale e comportamento prosociale. Consente di appropriarsi di quelle preziose competenze relazionali indispensabili nella vita. Nelle aule dove si sottolinea invece la preparazione, il rendimento, il fare bene i compiti, si richiedono performance, si sviluppano modelli competitivi, orientati alla realizzazione personale, al farsi strada.
Sulla base di una serie di esperienze ed evidenze scientifiche, sembra non ci sia motivo per cui i bambini debbano imparare a leggere a 5 anni quando, imparando a 6 o 7, poi a 11 fanno altrettanto bene, mentre si sa che impegnarsi nella lettura o scrittura in età precoci ruba tempo ad altre attività necessarie. I dati ci dicono anche che disturbi d’ansia e di depressione nei bambini appaiono correlati alle pressioni accademiche e alla mancanza di gioco. Come ricorda lo psicologo e biologo Peter Gray, professore presso il Boston College e autore del best seller in USA “Lasciateli giocare” (Einaudi), il gioco è il mezzo naturale per educare se stessi, il modo in cui i bimbi fanno esercizio di quelle competenze necessarie per diventare adulti efficaci: andare d’accordo con gli altri, cooperare efficacemente, controllare i propri impulsi ed emozioni. Ideare, sognare, pensare. Compresa la creatività, base per acquisire ed imparare.
Brunella Gasperini, psicologa
Tratto dalla rivista: D la Repubblica